Almanacco del Calcio Toscano

Eccellenza – Poggibonsi: I Leoni del passato remoto… Mauro Bettarini

Quattro campionati vissuti in giallorosso da portiere e, per un certo periodo, anche da allenatore. E’ Mauro Bettarini, classe 1938, da Roma. Giovanili capitoline negli anni Cinquanta e poi l’approdo in provincia di Siena, a Buonconvento: gli studi universitari, il calcio. Una storia tutta da raccontare.
Bettarini, vivaio Roma, come si accorsero di lei gli addetti ai lavori?
“Era intorno alla metà degli anni Cinquanta. Mi notò un osservatore e passai in giallorosso, alle giovanili. C’erano dei coetanei destinati ai massimi livelli, Orlando, Menichelli, Scaratti. Un gradino sopra di noi, tra le cosiddette ‘riserve’ come si diceva allora, c’era anche Carlo Mazzone. E nella formazione maggiore, delle figure addirittura leggendarie per il calcio: Da Costa, Ghiggia, Nordhal…”.
Cosa le mancò per raggiungere il giro della prima squadra nella Roma?
“Colpa di una bocciatura scolastica, al liceo classico. Mio padre, molto rigoroso e ligio a determinati principi, mi convinse a lasciar perdere il pallone. E così rimasi momentaneamente inattivo. Nel frattempo recuperai l’anno perduto a scuola e mi trasferii dal nonno, che abitava a Buonconvento. Mi iscrissi all’Università di Siena, facoltà di Giurisprudenza”.
Come avvenne il suo approdo fra i Leoni?
“Per una coincidenza di eventi. Il Poggibonsi nell’estate 1967 aveva puntato su un portiere di scuola Juventus, Tessieri, ma all’ultimo momento l’accordo non si concretizzò. E così fui contattato dalla società giallorossa che aveva allora per presidente Bruno Lucherini, per direttore sportivo Sergio Gilardetti e, nel ruolo di tecnico, Arnaldo Lucentini, che da giocatore aveva indossato le maglie di Fiorentina, Lazio e Sampdoria, debuttando anche in Nazionale”.
Alle soglie dei trent’anni, in serie D con il Poggibonsi…
“Sì, era un campionato semiprofessionistico, però dall’impostazione anche superiore. Ci allenavamo ogni giorno, con sedute anche doppie, per una squadra che annoverava Cermeli, Brevi, Vannuccini, Sardi, Donati, Vaselli, Baldini. Un buon piazzamento finale, in quel 1967-68. Personalmente, giocavo e studiavo. Preparavo gli esami universitari, anche se a prevalere, a essere sincero, era il campo di gioco a prevalere”.
Ricorda una sua domenica particolare, da portiere paratutto?
“Sì, nella stagione successiva, in una delle prime giornate. Giocavamo a Carrara e con i miei interventi impedii ai padroni di casa di segnare. Neutralizzai anche un calcio di rigore, quasi nel finale, e così ci tenemmo stretti il pari a reti inviolate. Alle fine ci piazzammo dignitosamente. Il tecnico, nel 1968-69, non era più Lucentini. Fu assunto Grasselli, poi sostituito da Querci, ex mediano della Pistoiese, della Fiorentina, del Livorno e del Siena, reduce da esperienze sulla panchina del Prato”.
E alla fine del decennio?
“Ripartimmo con mister Querci e con tante speranze nel 1969-70. Le cose però non andarono secondo le aspettative. Una sconfitta in trasferta con la Rondinella, a novembre, fu decisiva per le sorti del tecnico. Il presidente Piccini e il ds Gilardetti, affidarono a me la squadra. Avevo già una significativa esperienza sul campo di gioco, ma non mi ero mai dedicato alla preparazione di una prima squadra”.
Riuscì a portare delle novità?
“Cambiai ruolo a Prandi, arrivato dal Siena come stopper. Lo dirottai sulla fascia e in quella posizione andò anche più volte a segno. Ma sul piano strettamente pratico, non bastò per evitare la retrocessione. Vivemmo anche una fase di rimonta, ma risultò determinante, purtroppo, l’1-0 patito a Pontedera alla penultima giornata”.
E il 1970-71?
“Classica annata di assestamento per una società tutta nuova, con al vertice il geometra Giancarlo Stricchi affiancato da Aldo Borrani, Giuseppe Fagioli, Sergio Moggi. In panchina Uliano Vettori, altra figura di spessore da me incontrata a Poggibonsi. Fui tra i pochi a rimanere in gruppo, dopo l’amarezza della stagione precedente. La terza posizione servì ai giallorossi per sistemare le basi in vista di un futuro più importante. Ma intanto, a livello personale e professionale, stavano cambiando diverse cose”.
Ultima volta tra i pali, il 16 maggio 1971?
“Sì e nell’occasione indossai anche la fascia da capitano del Poggibonsi. Erano già note le mie intenzioni di chiudere con l’attività agonistica. Iniziai con il lavoro da assicuratore, portato avanti fino all’età della pensione. La mia prima destinazione, presso Alleanza Vita, all’ispettorato di Abbadia San Salvatore. Divenni, nello stesso periodo, allenatore della Pianese, allora in Terza categoria. Vincemmo due campionati e arrivammo in Prima. A 35 anni, anche la sospirata laurea in Giurisprudenza”.
E presto sarebbe arrivata anche l’Università del calcio: il Centro tecnico federale di Coverciano.
“Già quando giocavo nel Poggibonsi, sostenni con profitto il corso per ottenere il patentino. L’istruttore era Italo Acconcia, futuro valorizzatore, da Ct delle nazionali giovanili, di Paolo Rossi, Cabrini, Tardelli. Successivamente, intorno a metà anni Settanta, la domanda per partecipare alle lezioni per allenatore di Prima categoria. Incontrai, per un colloquio, Italo Allodi. L’ideatore del Supercorso”.
Le sue principali soddisfazioni, da tecnico?
“Si ricordano le vittorie di campionato, che fortunatamente non sono mancate. Oltre ai successi di Piancastagnaio, porto con me per esempio Sinalunga. A Chiusi, poi, una promozione da imbattuti. A Colle di Val d’Elsa i salti dalla Prima categoria all’Interregionale, negli anni Ottanta. Periodo in cui ritrovai Sergio Gilardetti, come Ds dei biancorossi. Un’altra bella affermazione anche a Staggia Senese”.
Cosa ricorda della crescita di suo figlio Stefano Bettarini come atleta, partito proprio da Staggia?
“Un giorno incontrai Giampiero Marini, che allenava le giovanili neroazzurre. ‘Che si fa con Stefano?’, mi chiese. E aggiunse: ‘A mio avviso, se il ragazzo si dedica solo al calcio, diventa un giocatore. Altrimenti c’è il rischio che non riesca, né nello sport e né negli studi’. Rimasi un po’ interdetto, ma accettai la proposta di Marini: che Stefano pensi solo al calcio. Ed è andata bene”.

A cura di Paolo Bartalini