Io proprio io: Lorenzo Vitale
Io proprio io: Lorenzo Vitale. L’Almanacco del Calcio Toscano propone un altro viaggio interiore di ispirazione antica, in questa rubrica che sta riscuotendo sempre più consensi fra i nostri utenti lettori. Il settimo racconto di quest’anno (clicca qui per la raccolta completa) ci porta a conoscere Lorenzo Vitale, direttore sportivo al momento “senza scrivania” – a parte quella del suo ufficio – con tante esperienze e aneddoti da raccontare. Una persona profonda, sensibile e orgogliosa che si è confidata con l’Almanacco come con un amico.
Vi raccomandiamo ancora una volta di prendervi un po’ di tempo e vi auguriamo una buona – e speriamo piacevole – lettura.
di Edoardo Novelli
Lorenzo Vitale, che belva si sente?
“Ti dico la tigre, è un animale che mi attrae molto. Una tigre un po’ ai margini, in questo momento. Stare fuori non mi piace, ho detto dei no in passato, poi quest’anno non mi hanno cercato proprio. Forse perché dico sempre la verità, scelgo solo situazioni che mi possano gratificare. Non sono un tipo scomodo ma particolare forse sì”.
Un professionista mancato: Pistoiese, toccata e fuga
Tanto particolare da strappare un contratto da professionista con la Pistoiese, dopo aver interrotto il viaggio di nozze per firmarlo…
“E’ vero. Amo il calcio e dentro una società do tutto, ma devo farlo con i miei tempi. Furono sufficienti pochi giorni a Pistoia per capire di avere altre priorità. Ricordo la domanda che mi feci. Ai vertici del calcio in categoria c’era l’Alessandria, immaginai come avrei reagito se mi avessero cercato. Mi risposi che avrei rifiutato, allora era inutile anche restare lì dov’ero. Nella mia vita c’erano i 15 negozi di abbigliamento di cui ero responsabile, un viaggio di lavoro imminente, soprattutto c’era la famiglia, mia moglie Francesca, il nostro desiderio di avere un figlio. Decisi che non era proprio il caso di fare il d.s. di professione, se avessi cominciato a 40 anni probabilmente lo sarei ancora, ma a un prezzo troppo alto”.
Prima di tutto le persone
Come si riesce ad essere un direttore sportivo benvoluto e stimato nell’ambiente, quale ho riscontro tu sia, mantenendo relazioni autentiche oltre quelle strumentali al proprio obiettivo?
“Premetto che nessuno può piacere a tutti. Però l’educazione e l’esperienza di vita con cui sono cresciuto, fa sì che metta sempre le persone in primo piano. Qualcuno sostiene che mi lego troppo ai giocatori. Io ritengo di propormi per come sono, senza gerarchie, cercando di stabilire dei rapporti alla pari, nessuno di loro se ne è mai approfittato. Mi è capitato anche di accompagnare in banca e assistere un mio giocatore nella richiesta di un mutuo, visto che lavoro nel settore immobiliare. E ho bei rapporti con tanti, come Gabriele Vangi, Samuele Bettoni, ma potrei nominarne altri”.
La scelta di “Farabutto”
E’ particolare anche il tuo profilo social, con quel “Farabutto” tra nome e cognome. Per quale motivo?
“Siamo della generazione che i social li ha visti nascere. All’inizio ero piuttosto attivo, scrivevo, poi mi resi conto che venivano presi troppo seriamente, e quindi scelsi questo appellativo per il mio profilo, con ironia, per sdrammatizzare. E così è rimasto ancora oggi, sebbene non scriva più così tanto”.
Il grande sogno
Però nel 2013 hai scritto in pratica un Io proprio io, dal titolo “Il grande sogno”, che si può ancora trovare in rete in formato Kindle. Com’è nata l’idea?
“Dovevo preparare la tesina alla fine del corso FIGC per la qualifica di Direttore Sportivo. Chiesi consiglio al mio relatore, che mi suggerì di scrivere qualcosa che mi piacesse davvero. Così pensai di affiancare, in un percorso parallelo, la mia esperienza di calciatore dilettante con quella di mio babbo nel professionismo, proprio come direttore sportivo. Il calcio è bello dalla serie A alla Terza Categoria, cambia la visibilità sui mezzi d’informazione ma le emozioni sono le stesse”.
L’idea di una scuola calcio
Il tuo grande sogno è cominciato a 7 anni con la scuola calcio, ai tempi in cui il pallone arrivava solo negli ultimi 20 minuti. Tu racconti di un allenamento propiziatorio, senza schemi e senza casacche, che Stefano Carobbi fece al Fiesole Caldine prima di una partita molto sentita col Flaminia. Forse farebbe bene proporlo anche ai ragazzini di oggi per stemperare le tensioni?
“Guarda, non mi sono mai occupato di settori giovanili, e non intendo farlo per adesso. Ma ogni tanto penso alla possibilità di aprire una scuola calcio. La immagino prettamente ludica, nemmeno affiliata alla FIGC. E’ sotto gli occhi di tutti quello che manca oggi: il campetto, il giardino. Ci sono le scuole calcio ma fuori di lì i bambini non giocano più a pallone. Ricordo quando ero alla Florentia di Mario Mazzoni, per me un vero maestro di vita, prodigo di consigli con tutti fino agli ultimi giorni della sua vita. Fino a 10 anni non si facevano i campionati, proporlo ai genitori oggi è impensabile, pretendere le partite a 8 anni ed è sbagliatissimo. E’ colpa degli adulti, i bambini si divertirebbero comunque. Poi, a ben pensarci, anche a livello di una Primavera, vincere un torneo è relativo, passa e si dimentica. Resta la Coppa in bacheca, certo, ma vale molto di più valorizzare i ragazzi, come accade all’Empoli che ogni anno ne porta tanti nel professionismo. Più delle vittorie conta divertirsi, stai sicuro che quelli bravi emergerebbero lo stesso”.
Baggio e Messi muse ispiratrici
Nella tua carriera di calciatore avevi qualche giocatore del cuore, un idolo a cui ispirarti?
“Sono stato davvero <malato> per due giocatori, Roberto Baggio e Lionel Messi, sono andato dieci volte a Barcellona solo per vederlo giocare. A proposito di Baggio posso raccontarti un aneddoto durante un Fiorentina-Brescia. Baggio rientrava da un infortunio. Ero con Matteo Cioffi, innamorato di lui come me. Dopo 5’ segna proprio lui ed esultiamo, la tribuna si rivoltò in massa! La Fiorentina fece due gol, sul 2-1 ricordo un fallo di Lassisi che l’alzò di peso e un tifoso ci apostrofò: <Questi sì che son giocatori!>. A 10 minuti dalla fine punizione per il Brescia, tira Baggio, il pallone sbatte sotto la traversa rimbalza dentro la porta e rigonfia la rete, fu l’apoteosi ma ci toccò scappare, volevano darcele!”
Ecco il link al video di quella partita
Il calcio di rigore
Quindi sarà pensando a Baggio e a quel rigore del ‘94 che hai riportato la citazione (da “Prima del calcio di rigore” di Claudio Baglioni) “Il senso non è buttarla dentro o fuori ma prendere la rincorsa e tirare”?
“Beh, sì, anche per lui. La bellezza del calcio, e della vita stessa, è saper cogliere il momento che stiamo vivendo. Quando calci può andar dentro o fuori, ma nella rincorsa sta l’emozione, come si dice <il viaggio conta più della meta>. Il mio rigore della vita l’ho tirato nel 2008 alle Caldine con la maglia dell’Audace Legnaia, in un playout contro la Rontese. Feci gol, vincemmo 5-4 e idealmente lo dedicai a lui”.
Hai citato poc’anzi il campionato Primavera, si osserva spesso come ci sia un divario notevole fra l’ultimo gradino giovanile e il primo dei dilettanti, per non parlare del professionismo…
“Perchè anche in Primavera si punta a vincere e basta, poi non trovo sensato un campionato giovanile con ragazzi di vent’anni e più, all’estero a quell’età ci si misura già su altri palcoscenici. Giocatori come Nicolò Fagioli, a parte i problemi che ha attraversato, o Riccardo Calafiori, si potevano valorizzare molto prima (2001 il primo e 2002 il secondo n.d.r.). Ci vuole coraggio, a 17 anni quando sei bravo devi giocare, come succede all’Empoli. Nella Fiorentina adesso ha risalto almeno Pietro Comuzzo, ma qualche tempo fa non schierava alcun giocatore nato dopo il 2000. Il Milan ha fatto esordire Francesco Camarda (2008, il più giovane debuttante nella storia della Serie A e della Champions League n.d.r.), dovrebbe essere d’esempio”.
Gli anni alla Rondinella
Percorriamo un altro tratto della tua gioventù di calciatore. Sei passato dalla Floriagafir, poi arriva la chiamata di Remo Micheli dalla Rondinella, cosa ricordi?
“Grande Remo, lo rividi qualche tempo fa ad Agliana come commissario di campo. Ero bravino ma forse mi portarono lì alla Rondinella per il cognome. L’anno successivo ebbi allenatore e preparatore atletico Vinicio Papini, un’altra persona importante per la mia crescita. Allenandomi tanto arrivai a meritare la fascia di capitano degli Juniores Nazionali, e la convocazione con la prima squadra guidata da Ciccio Esposito, fino all’esordio in campionato contro la Vis Pesaro, il 15 maggio del ‘94. Dovevo marcare Maurizio Cerasa (da qualche stagione tecnico della Larcianese n.d.r.), chissà se si ricorda di me, non ho più avuto modo di incontrarlo”.
Grassina, Scandicci, l’Inghilterra…
Poco tempo dopo, scrivi sempre sul tuo Grande Sogno, arrivò un infortunio a condizionare la tua carriera in campo, di cosa si trattò?
“Mi ruppi tibia e perone in un incidente in motorino. Ero un giocatore modesto, comunque mi ripresi e feci due anni in Eccellenza. Il primo a Grassina, con allenatore Roberto Malotti, una persona squisita con la quale è nata una bella amicizia. Faceva allenamenti incredibili, probabilmente non c’è alcuno dei suoi giocatori che ne parli male. A quei tempi aveva un cane lupo, che aveva chiamato Chicco, ricordo che negli spogliatoi a Grassina si divertiva a perseguitare Duccio Ciabattini, che oggi fa il tassista. L’anno successivo (stagione 96-97 n.d.r.) andai a Scandicci, era una squadra forte con giocatori come Montagni, Moretti, Martini, ma si retrocesse, peccato”.
L’anno seguente hai fatto perfino conoscenza con il calcio inglese, poteva essere una svolta?
“Mi ero diplomato in ragioneria, per imparare l’inglese mi trasferii per qualche tempo a Canterbury. Giocavo nella squadra del College, i compagni scherzando mi chiamavano <Wizard>, a quei tempi nel Chelsea giocava Gianfranco Zola, e aveva questo soprannome. Mi allenai anche con una squadra del posto ma fu un esperienza breve, tornai presto a Firenze”.
Audace Legnaia, squadra del cuore
Dove riprendesti a giocare?
“La stagione successiva Fabio Failli, allenatore della Rondinella nel periodo in cui ero fuori per infortunio, oltreché amico, mi portò alla Vaianese con altri ragazzi di Firenze. Però la distanza da casa era proibitiva, così mi proposi l’anno dopo all’Audace Legnaia, la mia squadra del cuore, con quel grande dirigente che è stato Giulio Bacci. Faceva la Prima Categoria con zero budget, ricordo i gol di Pasquini e Toccafondi, forse gli unici che prendevano qualche soldino (lo dice ridendo… n.d.r.), e altri compagni come Borghini e Fancelli, divenuti amici nella vita. Sono rimasto sette anni in tutto, interrotti per qualche attrito con l’allenatore di allora, dalla parentesi alla Cattolica Virtus. Mi riportò a Legnaia l’amico Filippo Vetrini, facevamo la squadra insieme. Vincemmo la Seconda, e poi mancando per un punto il passaggio in Promozione”.
Alle Piagge il salto dal campo alla scrivania
Scorrendo il tuo racconto fino ai giorni in cui lo scrivesti – ne saltiamo dei passi importanti che i nostri lettori potranno recuperare cercandolo in rete – siamo all’esperienza alle Piagge, con il passaggio dal campo alla scrivania…
“Esatto, mi cercò il Presidente Jacopo Capizzi, che con Rosario Selvaggio aveva iscritto la squadra in Terza Categoria. L’allenatore era Andrea Lampredi, davvero tutte belle persone. La mia carriera si chiuse con la promozione in Prima Categoria (annata 2009-10 n.d.r.), cominciava a servire un direttore sportivo, così proposi a Capizzi e Selvaggio di farlo io, sempre con Lampredi allenatore”.
Il “miracolo” Fiesolecaldine
La tua tesi da direttore sportivo arriva fino al 2013, “coprendo” il periodo da direttore sportivo ancora a Legnaia e poi al Fiesolecaldine…
“Sarò sempre grato a Sergio Sezzatini che mi volle a Fiesole. Fu una delle stagioni più belle della mia vita di dirigente, arrivammo settimi in serie D con Stefano Carobbi allenatore, e una squadra di ragazzi vogliosi di giocare e stare insieme. Vincemmo a Gualdo, a Viterbo, anche con l’Arezzo scrivendo davvero un pezzo di storia”.
Scandicci, impresa play-off
Ti facesti subito apprezzare ad alti livelli, e proseguisti sullo stesso tenore a Scandicci…
“Il primo campionato a Scandicci – 2013-14 n.d.r. – fu bellissimo, facemmo 61 punti raggiungendo i playoff (sconfitta onorevole con la Pianese per 3-2 n.d.r.). Una squadra davvero forte allenata da Marco Brachi, con il quale all’inizio ci fu qualche attrito. Adesso posso dirlo, lui aveva chiesto Jacopo Zagaglioni e Jacopo Galbiati, ma costavano troppo. Io mi ero concentrato su Federico Del Colle, alle sue insistenze risposi che pensasse ad allenare perché far la squadra era compito mio. Ma da quel confronto è nata la nostra fraterna amicizia. La squadra dopo 10 partite era a 11 punti, nelle successive 24 ne fece 50!”
Francesca e Leonardo, i doni della vita
Sei rimasto a Scandicci tre anni, con una parentesi alla Fortis Juventus. Poi, quando ti chiamò la Pistoiese, eri in viaggio di nozze. Cogliamo l’occasione per raccontare un po’ di tua moglie Francesca e di tuo figlio Leonardo…
“Francesca l’ho conosciuta in un locale che aveva mio cugino, a San Piero a Ponti, quando avevo 25 anni. Ci siamo frequentati, riuscì subito a darmi forza, dopo poco tempo facemmo un viaggio insieme a New York nel gennaio 2001, con le Torri Gemelle ancora in piedi… Da allora abbiamo alternato periodi insieme ad altri, fino a quando ho capito che era veramente la donna della mia vita, e che la stavo perdendo. Tornai da lei a capo chino nel 2015. La trovai timorosa, ne avevo combinate un po’, la morte della mia mamma aveva reso il mio equilibrio un po’ precario, ma da quando abbiamo intrapreso una vita insieme, la mia quotidianità è piena di gioia. Poi, con qualche difficoltà e dopo un cammino faticoso, è finalmente arrivato Leonardo a sconvolgerci la vita e renderla ogni giorno più felice. E’ un bambino molto fisico, seguirlo richiede energie, che siano giocare a pallone o andare in bicicletta, in montagna faceva le piste forestali e noi dietro a piedi; io ansimavo, ci concedeva a stento una sosta per una birra! Con lui Francesca ha scelto di lasciare il lavoro, era alle Risorse Umane in una azienda bancaria, è diventata mamma dopo i 40 anni e non vuole perdersi niente. Adesso Leonardo frequenta l’asilo <Crescere in fattoria>, grazie anche all’impegno di Francesca per aiutare la struttura a mantenersi attiva”.
Una pallina, e il grande calcio entrava in cameretta
Tu invece, che bambino sei stato, con cosa giocavi da piccolo?
“Sono sempre stato molto legato alla mamma. Avevo più di trenta cugini, mio babbo ha otto fratelli e mia mamma ne aveva sette.. Andavo dai nonni, dall’una o dall’altra parte trovavo sempre con chi stare! Ricordo bene la mia camerina, il Lego, Jeeg Robot, ma sui 6-7 anni giocavo soprattutto a immaginarmi partite di calcio con una pallina. Ci passavo delle ore, mi inventavo le interviste, prendendo dall’album Panini i nomi dei giocatori più importanti, alla Fiorentina ovviamente c’era Antognoni. Facevo anche la musichetta della sigla!”
Scandicci, il grande ritorno
Ecco perché dopo le dimissioni alla Pistoiese hai fatto l’opinionista per Il Gioco è fatto su TV Prato, avevi la vocazione! Poi il grande ritorno a Scandicci nel 2018…
“Una delle più belle soddisfazioni della mia vita. Quando arrivai la situazione era complessa, con 1 punto dopo 7 partite. Alla fine del girone d’andata ne avevamo 9, poi rifeci la squadra puntando su giocatori come Serrotti, in quel momento senza squadra, Castellani che mi era sempre piaciuto, Bragadin, ritornò Gabriele Vangi, presi Marco Leo e Francesco Meacci dalla Rignanese allenata da Stefano Guarducci, nostra diretta concorrente, che era in cattive acque. Conquistammo 26 punti e ci salvammo ai play-out proprio contro la Rignanese, sebbene fossimo in trasferta e in svantaggio per la classifica (20 maggio 2018, gol di Serrotti e Poli; guarda qui la sintesi Youtube di Almanacco). Un’impresa simile a quella di Walter Sabatini alla Salernitana nel 2022”.
Su quella partita Lorenzo Vitale racconta anche un aneddoto:
“Ricordo che finì sotto inchiesta per le puntate anomale sulla vittoria dello Scandicci. In realtà appurarono come si trattasse di un madornale errore di valutazione nel fissare le quote, che aveva attirato molti scommettitori, consapevoli della nostra forza e delle loro difficoltà: nel girone di ritorno avevano fatto solo 11 punti, noi 26”.
Aglianese, la C resta un sogno
Siamo quasi ai giorni nostri, arrivando agli anni trascorsi ad Agliana…
“L’esperienza all’Aglianese è stata bellissima, sebbene mi resti il rammarico di aver sfiorato la Serie C per un punto. L’unica partita della mia vita che vorrei rigiocare è quella persa in casa col Prato 2-1 (16 giugno 2021, penultima di campionato n.d.r.), la ripenso ancora di notte. Ci annullarono un gol per fuorigioco dopo nemmeno un minuto, giustamente il Prato giocò per vincerla però mi lasciò perplesso vedere un allenatore farsi 40 metri di campo per esultare su un gol che per il campionato della sua squadra in fondo valeva poco; eravamo un punto sopra il Fiorenzuola e ci ritrovammo scavalcati. Quella notte, con il direttore generale Fabio Ciatti, grande uomo di sport e mio amico, ci prendemmo addirittura una sbronza per la delusione. Tuttavia ci sarebbe spettata la riammissione, ma il presidente Gabriele Giusti decise di non inoltrare la domanda – anche a causa dell’inagibilità dello stadio secondo i parametri della serie C n.d.r. – così la serie C rimase un sogno. L’anno successivo il presidente decise di vendere e venni via”.
San Donato Tavarnelle: stagione travagliata
Poi è seguito un anno di inattività e siamo arrivati alla tua ultima esperienza al San Donato Tavarnelle, nella scorsa stagione 2023-24. Lì la squadra però l’hai trovata quasi già fatta, giusto?
“Arrivai il 10 di luglio – dopo l’allontanamento di Matteo Caciagli, in carica da un mese e mezzo n.d.r. – c’erano già l’allenatore e una decina di giocatori nuovi, in società si respirava grande amarezza dopo la retrocessione. E’ stato un anno tutt’altro che facile, menomale ho avuto di fianco il mio amico e collega Giacomo Biagi con cui condividerlo. Mi è dispiaciuto mandar via Lorenzo Collacchioni, bravo allenatore e persona per bene che ha pagato per colpe non sue. Anche Marco Brachi, il migliore allenatore che ho avuto, da me chiamato per sostituirlo, ha dovuto fronteggiare situazioni complicate. Leggo oggi dalle dichiarazioni del Presidente Andrea Bacci di un clima diverso in società, di uno spirito ritrovato, attribuisce le cause dell’ultima annata deludente agli errori nella gestione sportiva più che in quella tecnica. Mi sento chiamato in causa, potrei raccontare come non fosse quello l’aspetto più significativo che ha pregiudicato risultati in linea con gli obiettivi, e in che clima si siano vissute le 5 sconfitte consecutive a fine campionato quando bastava un punto per salvarci. Ma non voglio fare polemica e auguro il meglio alla società”.
La passione di viaggiare
Abbiamo viaggiato tanto nel tempo, tu viaggi molto, invece, nel mondo?
“La passione di Francesca e mia è proprio conoscere il mondo, speriamo di far viaggiare tanto anche Leonardo. Sono amante del Sud America, da giovane sono andato tante volte in Brasile, a Cuba, dove respiri tutto il sapore della loro storia complessa, sono tornato anche con Francesca anche se leggo oggi ci siano gravi problemi. Ho visitato anche il Messico. Non cerco la vacanza <all inclusive>, posso ritagliarmi anche qualche giorno in resort ma soprattutto voglio stare fra la gente. Adesso Francesca sta progettando un viaggio in Tahilandia. Vivrei volentieri un po’ di tempo a Londra o a New York, quest’anno siamo stati in Olanda, Leonardo adora andare in bici”.
Rocky Balboa e… Oronzo Canà!
Invece con la Tv, il cinema e la lettura come sei messo?
“Seguo molto le serie di Netflix come <La casa di carta>. Mi piace il cinema italiano, lo preferisco ai kolossal americani con gli effetti speciali, anche se tra i miei film preferiti c’è l’intera saga di Rocky. Invece quello che so proprio a memoria è <L’allenatore nel pallone>. Leggo tanto, soprattutto biografie, ho iniziato quella di David Bowie, dopo aver terminato <Il capobanda> di Aldo Cazzullo, una cronaca sulla vita di Mussolini. Mi piacciono storie realmente accadute”.
Fobico ma determinato, autentico e creativo
Diamo un’occhiata allo Zodiaco. Sei nato il 24 giugno, il Cancro ha mille sfaccettature… Introverso, sensibile, emotivo, creativo, tu come ti senti?
“Sono un fobico cazzuto. Ho tante paure, ma con una ferma determinazione che mi permette di superarle. Sarei introverso ma ho imparato a farci i conti. La vita e il lavoro mi mettono ogni giorno in rapporto con gli altri, sto cercando di buttar giù la maschera che un po’ tutti teniamo ed essere me stesso sempre, dando fiducia alle persone che incontro. Vorrei tornare a esprimere un po’ di creatività come quando avevamo i negozi di abbigliamento oppure quando ho scritto il mio Grande Sogno. Sviluppando magari un po’ di manualità, non ho mai nemmeno cambiato una lampadina, ammiro chi si diletta nel bricolage, io al massimo riesco a costruire un trenino con mio figlio!”.
Sei superstizioso, hai un mantra segreto propiziatorio?
“Non sono superstizioso, nella maniera più assoluta. Ero scaramantico come il babbo, ma quando mia mamma si ammalò mi disse lei di non lasciarmi condizionare e da quel momento, anche se certi riti fanno parte del calcio da sempre, ho smesso di esserlo. Oggi la rispetto, ma la trovo una forma di debolezza”.
Le scuse a un amico
Abbiamo ripercorso il racconto della tua vita fino a oggi. C’è qualcosa che, potendo tornare indietro, rifaresti in modo diverso?
“Guarda, c’è un episodio che a ripensarci ancora mi fa male. Voglio scusarmi con Francesco Vannini. Alla Fortis di Borgo San Lorenzo mi aveva portato lui; eravamo amici intimi, tra l’altro abbiamo condiviso almeno un paio di viaggi in Brasile. Prima del campionato non lo difesi e fu mandato via. Dovevo venire via anche io, ma non lo feci sbagliai. Io e lui ci siamo chiariti e siamo tornati ottimi amici. Però non gli ho mai chiesto scusa pubblicamente. Adesso è tornato a fare il direttore alla Fortis, gli auguro il meglio”.
Uno sguardo al futuro
Cosa farai da grande, ti vedi di nuovo dietro una scrivania a costruire una squadra?
“Chissà se qualcuno mi richiamerà, ormai sono invecchiato e non vivo male la cosa, non so nemmeno se accetterei. Seguo le partite che mi piacciono, due settimane fa ero a fare il bagno a Cala Violina e penso di essere stato pure meglio. Certo, mi mancano le <farfalle> della domenica, svegliarmi assaporando l’adrenalina del campo, farmi 10 chilometri di camminata giocandomi la partita in testa invece che ascoltare poadcast come adesso. L’emozione istantanea che mi dà il calcio e non trovo altrove. Ma delle beghe degli altri sei giorni non sento proprio il bisogno!”
Babbo Pino: “Il più bravo di tutti”
Sei un figlio d’arte, Pino è un babbo e un “collega” molto carismatico. Sei istintivo e sanguigno come lui?
“Direi di no, ci somigliamo molto fisicamente, ma al contrario del mio babbo io non perdo la pazienza facilmente. Però fondamentalmente lui è molto più buono di me oltre che più bravo nel suo lavoro. Forse il più bravo che conosca”.
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